exposing the dark side of adoption
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Bambini, non pomodori

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01/11/2008   Parla Valeria Dragone, presidente del CiaiBambini, non pomodoridi Gerolamo FazziniViaggio nel pianeta adozione internazionale alla scoperta di piaghe nascoste e fatti sorprendenti. A tu per tu con una mamma adottiva, in trincea da anni


ROMA, qualche settimana fa. «Sono bambini, non pomodori». L'esclamazione di Pascaline Tamini, ministro degli Affari sociali del Burkina Faso, gela i presenti all'incontro dei rappresentanti degli enti che operano nel Paese africano per l'adozione internazionale. Con quell'uscita, brusca ma estremamente efficace, il ministro reagisce alle pressioni di taluni organismi, pronti a finanziare progetti di cooperazione con la nemmeno tanto segreta speranza di godere, successivamente, di una corsia preferenziale nella gestione degli adottandi.
«Bambini, non pomodori» è anche la bussola che orienta quotidianamente il lavoro del CIAI di Milano, uno dei più noti e storici enti italiani per l'adozione internazionale.
A guidarlo è, dal 1987, Valeria Rossi Dragone (nella foto), 64 anni, milanese di nascita e lecchese di adozione. Ex insegnante, è mamma adottiva di quattro figli Carlo, Maurizio, Marilina e Margaret (i primi due fratelli biologici) che oggi hanno rispettivamente  36, 35, 31 e 27 anni.
TANTO VALE dichiarare subito il conflitto d'interessi. È tramite il CIAI che io e mia moglie abbiamo adottato Ana Maria, la nostra seconda figlia, nata in Colombia. Proprio a partire dall'esperienza familiare e dalla frequentazione del CIAI, ho scoperto che l'adozione internazionale rappresenta un prisma interessante attraverso il quale leggere non solo la situazione di un Paese (cultura, welfare e burocrazia...), ma anche certi meccanismi delle relazioni internazionali Nord-Sud, che ancor oggi oscillano tra solidarietà e neo-colonialismo.


Partiamo rovesciando un luogo comune. Letta con gli occhi delle coppie in attesa di un figlio dall'estero, la diminuzione del numero di bambini piccoli disponibili per l'adozione è un dato allarmante. In realtà «contiene» una buona notizia: è segno che altrove l'adozione nazionale cresce...
È così. I casi più significativi sono il Brasile, la Colombia e alcune aree dell'India. In questi Paesi, nel corso degli ultimi 10-15 anni, il processo dell'adozione nazionale si è diffuso e consolidato grazie a un lavoro di sensibilizzazione che ha prodotto un cambiamento culturale. Il merito è della classe politica locale e - va detto - della collaborazione di vari Paesi di accoglienza e delle loro ong. Accanto a chi ha sviluppato l'adozione nazionale - che, in un'ottica di sussidiarietà, rappresenta la via privilegiata per dare una famiglia al bambino - abbiamo Paesi che hanno migliorato le loro leggi in tema di minori. È il caso del Guatemala, fino a pochi anni fa alle prese con un problema gravissimo di traffico, specie in direzione Usa.


I dati sull'adozione internazionale dicono che dal 2004 (anno del picco) il numero di bambini adottati in tutto il mondo è complessivamente in calo. Ma non diminuisce (anzi!) il numero di bambini che hanno bisogno di una famiglia. Qual è il problema?
Il punto è che la domanda e l'offerta - mi si perdoni il linguaggio «economico» - spesso non si incontrano. Le coppie del Nord del mondo cercano bambini in tenera età (sotto i 3 anni) e senza problemi sanitari. Mentre la realtà è che molti dei bambini abbandonati e adottabili sono più grandicelli (dai 5 ai 9-10 anni), hanno a volte un piccolo handicap o patologie (peraltro spesso reversibili) e non di rado appartengono a un gruppetto di 2-3 (a volte 4) fratelli o sorelle, che quindi devono essere accolti insieme. In tanti istituti (Est Europa, ma non solo), abbiamo bambini abbandonati che non riescono a essere inseriti nel percorso dell'adozione. Altrove la situazione è capovolta: l' adozione avviene non tanto in presenza di un effettivo abbandono del minore da parte dei genitori, ma come esito di pressioni sulla famiglia di origine (generalmente povera e disposta a credere che il figlio «andrà a star meglio»), oppure frutto di vere e proprie compravendite, seppur ammantate di legalità.  

Paradossale: la direttrice tecnica del colombiano Istituto central del bienestar familiar (Icbf) in un recente convegno internazionale, promosso a Venezia dal CIAI, ha dichiarato: «Accade che bambini arrivati da noi all'età di 5 mesi siano ancora senza una famiglia definitiva a 12 anni». Intanto in Italia e in Europa migliaia di famiglie aspettano... Non si può far qualcosa per sanare una contraddizione del genere?
Le adozioni internazionali potrebbero tornare a crescere in un futuro non lontano, a condizione che alcuni Paesi riescano a risolvere problemi procedurali e, prima ancora, culturali. In alcuni contesti africani, ad esempio, l'opinione pubblica oscilla tra i due estremi del pendolo su questo tema: o la si vede come il fumo negli occhi (quasi l'ennesima prepotenza dell'Occidente), oppure la si concepisce come la panacea di tutti i mali (povertà ecc.). Quanto agli ostacoli politico-procedurali, appena verranno risolti si sbloccherà la situazione di Paesi quali Perù ed Ecuador che potrebbero diventare a breve «donatori» di bambini. Lo stesso vale per la Costa d'Avorio. Penso, poi, alla Cina: da qualche mese sono partite le prime domande dall'Italia (una trentina); tra fine 2009 e 2010 potrebbero arrivare in Italia i primi minori cinesi.  

Lei dice: occorre prendere coscienza che oggi i bambini adottabili hanno una precisa situazione e problemi non indifferenti. Ma qualcuno, usando una formula brutale, le potrebbe rispondere: perché in Occidente dovremmo accollarci gli «scarti» altrui, ossia i bambini meno fortunati che non trovano una famiglia nel loro Paese?
La risposta è semplice: chi fa ragionamenti di questo tipo non ha capito cos'è l'adozione internazionale e non ha le carte in regola per affrontarla. Chi invece vuole assumersi tale responsabilità non può che partire da un dato oggettivo, ossia che in Italia e in Europa le famiglie hanno più risorse e aiuti per farsi carico di bambini con storie pesanti alle spalle. Non parlo solo di disponibilità economiche, ma di supporti di tipo sociale, psicologico e via di questo passo.

Alcuni Paesi africani (Etiopia in primis) stanno subentrando a quelli dai quali tradizionalmente provenivano i bambini. L'Africa sarà la nuova frontiera dell'adozione internazionale, dopo la stagione dell'Est e il boom del Sudamerica?
Quanto all'Etiopia, posso dire che, per l'esperienza del CIAI, il processo dell'adozione è complessivamente «sorvegliato» dalle autorità. Già oggi sono numerosi i bambini etiopi adottati in Europa e non escludo che questo numero possa crescere. Accanto ad alcuni «storici» (Madagascar), altri Paesi africani si stanno aprendo: penso a Nigeria, Mali e Costa d'Avorio, tanto per citarne alcuni... Finora - per quanto ne so - non si sono verificati, a parte eccezioni circoscritte (come la vicenda di Zoe's Arche in Ciad - ndr), episodi gravi o scorrettezze vistose. Il problema è che l'Africa, che pure potrebbbe trovare nell'adozione internazionale un'opportunità per tanti sui figli orfani o in situazioni gravissime, si trova ad affrontare - lo sappiamo bene - problemi giganteschi, che vanno dai conflitti all'estrema povertà di tante regioni...

A fronte dei miglioramenti in atto, la piaga del traffico di bambini rimane in diversi Paesi come una prassi diffusa. Proprio nel convegno organizzato dal CIAI a Venezia è stata portata ad esempio la situazione del Vietnam e della Cambogia. Cosa succede a quelle latitudini?
Vietnam e Cambogia sono due Paesi che, in modo diverso, presentano seri problemi di trasparenza nel processo adottivo. In Cambogia una legge vera e propria sull'adozione internazionale non c'è (è in incubazione da quasi 10 anni); in Vietnam la legislazione vigente non vieta il rapporto diretto tra famiglie locali e la famiglia che si candida ad accogliere il bambino. In questo processo poco governato, è alto il rischio che si insinuino astuti procacciatori di bambini che, dietro lauti compensi, setacciano i villaggi e «prenotano» il bambino per conto terzi. Esistono enti europei che, avvallando di fatto questa situazione, ne approfittano per trovare qui i famosi bambini «piccoli, belli e sani» che oggi costituiscono il miraggio delle coppie occidentali. Questa «disinvoltura» penalizza pesantemente alcune associazioni che non vogliono far ricorso a tali mezzi e che si trovano, di fatto, nell'impossibilità di lavorare.

A proposito di soldi. Mi ha sconvolto leggere un articolo di un giornale che diceva testualmente, in merito all'adozione in Guatemala: «Se alcuni americani sono disposti a pagare perfino 50 mila dollari per adottare, ciò non è così negativo. Ong, politici e burocrati potrebbero chiamarlo un disgustoso traffico di esseri umani, ma io lo definisco come un metodo per trovare amore per quei bambini che ne hanno un bisogno disperato».
A questo signore rispondo che molti bambini starebbero volentieri dove sono, anche in una capanna in mezzo alla savana, a patto di avere una famiglia che li ami. Tutto dipende dalla logica di fondo: prioritario è l'interesse del bambino ad avere una famiglia o quello della coppia a soddisfare il proprio bisogno di genitorialità? Ovvio che le cose cambiano a seconda dell'ottica. Purtroppo la «macchina» dell'adozione internazionale made in Italy rischia spesso di privilegiare quest'ultima visuale. Questo spiega una politica volta a «fare numeri» (perché le famiglie premono), un modo miope e utilitaristico di concepire la cooperazione internazionale, che gli enti sono tenuti a fare per legge e via dicendo.

Veniamo all'Italia. In cosa non funziona del tutto il processo dell'adozione internazionale? Crescono le domande, ma in misura molto superiore al numero delle adozioni realizzate. Che fare?
Noi siamo tra quelli che pensano che i tribunali concedano l'idoneità alle famiglie con eccessiva facilità: oggi si attestano sul 93 per cento delle domande. Da tempo proponiamo (invano) una «scrematura» delle famiglie in ragione della nuova tipologia di bambini che ormai arrivano dal Sud del mondo. Ma non riusciamo a dialogare con i giudici. La percentuale dei fallimenti adottivi (i casi di bambini «non graditi» che ritornano nel Paese di origine) non è molto alta - la stima più recente parla del 3 per cento -, ma bisogna considerare il fatto che per ognuno di questi bambini la ferita è gravissima, a volte irreparabile.

I genitori adottivi potrebbero ribattere: perché dobbiamo essere sottoposti a esami per avere la «patente» di mamma e papà, mentre i genitori biologici no?
Perché i bambini in adozione hanno una storia assolutamente particolare, segnata dal trauma dell'abbandono, spesso punteggiata di abusi e violenze. Ai genitori adottivi è chiesta una responsabilità particolare. Questo non significa che debbano essere super-eroi, ma che abbiano una disponibilità totale a farsi carico delle storie e delle ferite dei loro bambini.
C'è chi dice che gli enti accreditati siano troppi...
Sì, è così e questo provoca difficoltà nei controlli del loro operato e, a volte, un eccesso di competizione. Il tutto si traduce in maggiore debolezza di fronte agli interlocutori esterni, ossia nei Paesi di provenienza dei bambini. Altra questione: la Commissione per le adozioni internazionali non ha potuto lavorare con continuità, in questi ultimi anni; ne è derivata una mancanza di programmazione politica nel rapporto con gli altri Paesi e, soprattutto, un corretto svolgimento della propria funzione di controllo.

A livello europeo si registra il boom della Spagna. Perché? Sono più generosi gli spagnoli o semplicemente più efficienti? Sono favoriti dalla lingua (che li avvicina naturalmente all'America Latina) o c'entra anche la politica e la cooperazione internazionale?
Tutti questi fattori insieme. Non v'è dubbio che la Spagna (così come la Francia e altri Paesi) sia facilitata, nell'ambito dell'adozione internazionale, da una sana convergenza del lavoro istituzionale, diplomatico e della cooperazione. Noi no: la cooperazione svolge il suo lavoro, ignorando quanto fanno gli enti per l'adozione nei vari Paesi. Da tempo come CIAI andiamo dicendo che occorre proporsi all'estero come «Sistema Italia», coordinando al meglio i vari ambiti. Ne risulterebbe rafforzata la nostra immagine all'estero e migliorerebbe l'efficacia del lavoro che si conduce nei vari Paesi.


Scheda:

Ciai, dalla parte dell'infanzia. In Italia e nel mondo

Nato nel 1968 (quest'anno festeggia il quarantennale con una serie di iniziative ad hoc), il Centro italiano aiuti all'infanzia (CIAI) è una organizzazione non governativa, apartitica e non confessionale, che si batte per promuovere il riconoscimento del bambino come persona e difenderne ovunque i diritti fondamentali: alla vita, alla salute, alla famiglia, all'educazione, al gioco... Tre le linee di intervento, condotte da uno staff che annovera una trentina di persone in Italia e circa 135 nel Sud del mondo: la solidarietà e la cooperazione (progetti di sviluppo nel Sud del mondo), l'adozione internazionale e la promozione di una «cultura dell'infanzia», all'insegna della convinzione che «un bambino è un bambino in tutto il mondo».
Nell'ambito degli enti accreditati, il CIAI si distingue per l'impegno sul fronte culturale: da citare due conferenze mondiali sull'adozione internazionale, numerosi dibattiti e convegni (il prossimo, il 21 novembre al Pime, la Giornata di studio sull'adozione di fronte alle sfide dell'età adulta), le campagne contro il turismo sessuale e la pedofilia, libri illustrati per bambini, la rivista trimestrale L'Albero Verde.
L'altro impegno fondamentale è il servizio alle famiglie, pre e post-adozione. Tra le iniziative messe in campo, il Numero verde 800.335.1100 e lo Spazio di ascolto (entrambi gratuiti), attivati nel novembre 2007 per accogliere e indirizzare richieste di genitori e figli adottivi in difficoltà e per incontrarsi con psicologi esperti di adozione e confrontarsi con loro su come affrontare le difficoltà. L'iniziativa si inserisce all'interno di un progetto più ampio (chiamato «Un gioco di squadra»), rivolto al sostegno nel post-adozione e finanziato dalla Fondazione Cariplo.  z G.F.
Per informazioni: www.ciai.it

2008 Nov 1